Appunti per Padre Cicogna
Il contesto
storico
Eduardo scrive il poemetto Padre Cicogna nel 1969. Rispetto alla sua produzione teatrale
si colloca
quindi fra Il
contratto (1967) e Il monumento (1970); rispetto alla produzione poetica invece
appartiene all’anno di alcune brevi poesie, A chi arrobba sentenno,
’O viento,
Vuò vedè…? Mentre
precede di poco una composizione sconsolata come ’A lampa (1970) che
riflette sul dolore, gli affetti, la morte. Al poemetto vero e proprio invece
Eduardo non si dedicava da tempo, né gli capiterà più di dedicarvisi: Padre Cicogna conclude così una sorta di trilogia intitolata a
tre
strampalati personaggi, di cui i primi due erano nati alla fine
degli anni quaranta: Vincenzo De
Pretore, povero mariuolo figlio di n.n. che sogna di trovare in
San Giuseppe il proprio padre
putativo; Baccalà, una sorta di clown di quartiere, da tutti
maltrattato ma da tutti conosciuto, che si
impicca quando comprende che la sua figura “è passata di moda”;
e infine Padre Cicogna, prete
spretato che, per risarcire il suo peccato, promette di
allestire le figure di un presepe ideale con le
creature nate dopo la sua rinuncia ai voti.
Non è difficile cogliere gli umori neri che legano Padre Cicogna ai titoli teatrali fra i quali si
contestualizza, né avvertire i toni acri o i paradossi
grotteschi in cui incorrono i rispettivi
protagonisti, animati da una logica maniacale e contornati da un
coro di personaggi sempre più
ipocriti e cattivi.
Nel 1969, fra mobilitazioni e ipocrisie, si consumano le
tragedie della guerra del Vietnam e del
Biafra. In Italia si combatte una battaglia importante per i
diritti civili, quella per il divorzio, alla
quale Eduardo partecipa appassionatamente, anche con interventi
pubblici. Vivo è anche è il
dibattito sul matrimonio dei preti che è possibile leggere sullo
sfondo del poemetto (in un episodio,
ad esempio, di
Contestazione generale [Luigi Zampa,
1970], Alberto Sordi interpreta un prete
povero che lotta con le gerarchie per potersi sposare); ma
soprattutto si avverte l’involuzione di una
società senza
pietas, che sta imparando a chiudere
la porta in faccia al dolore fingendo di indignarsi
davanti alle sue espressioni più plateali. Come ai tempi del
Sindaco,
di questa società il rione Sanità
offre a Eduardo ancora una volta un paradigma significativo.
Il poemetto
Il tema della presunta indissolubilità dei legami, del rifiuto
da parte delle istituzioni, laiche o
religiose che siano, di accettare il cambiamento nella storia
personale di un individuo domina la
prima parte del poemetto, in quella immagine fortissima di un
prete nudo, che di notte, davanti a un
altare, si rivolge a Dio con rabbia, con disperazione.
Padre Cicogna riuscirà a sciogliere il patto indissolubile che
lo lega alla chiesa, ma a che prezzo! Al
momento di lasciare l’abito sacerdotale, per cercare di
scongiurare la maledizione divina che hanno
evocato su di lui le gerarchie ecclesiastiche a cui si è rivolto
in cerca d’aiuto, fa un voto: promette di
mettere al mondo, con la donna che ama, tre bambini maschi,
Gaspare, Melchiorre e Baldassarre,
che ogni anno, a Natale, vestiti da Re Magi, renderanno omaggio
al Salvatore cantando «Tu scendi
dalle stelle». In questa promessa, fatta da un prete a Dio,
senza mediazioni, si sente tutta la forza,
ma anche la debolezza di una religiosità popolare concepita come
patto, come relazione diretta con
l’al di là; una relazione a tu per tu che abbiamo già trovato,
trattata in chiave comica, ma anche
drammatica, in altri lavori di Eduardo: nelle commedie Non ti pago,
Filumena Marturano,
De
Pretore Vincenzo.
Mentre in quei tre piccoli Re Magi che con in mano stelline natalizie —
possiamo immaginarlo — girano attorno al tavolo imbandito
cantando, si possono vedere, come in
un cannocchiale rovesciato, i re Magi adulti di una scena
famosissima: il finale del secondo atto di
Natale in casa Cupiello.
Padre Cicogna lascia i voti, torna a essere Emanuele Palumbo e
sposa Catarina, ma non riuscirà mai
a realizzare il suo sogno natalizio coi tre piccoli Magi. Quando
sembra che stia per riuscirci, c’è
sempre un Gaspare, un Melchiorre, un Baldassarre che muore:
morti senza logica né senso, morti
senza peso. I funerali con le piccole bare si susseguono tanto
in fretta, in tono sempre più dimesso,
che non si sa neppure chi sia stato a morire. Anche la
solidarietà della gente li abbandona; quella
gente che prima ha accolto nel quartiere la coppia con calore
festoso, che ha fatto cerchio attorno a
Emanuele e Catarina per aiutarli ad affrontare la perdita del
primo Melchiorre, ora, di fronte allo
scandalo di quell’ex prete che è stato visto nudo, in chiesa a
colloquio con Dio, volta le spalle e si
chiude in una gelida indifferenza.
Si sa che nelle opere di Eduardo gli altri, il mondo, hanno di
solito il volto di vicini buoni e solidali.
Ma se si esamina con attenzione il suo teatro si vede come
questo volto possa trasformarsi,
diventare una maschera livida o grottesca, una presenza
invadente o minacciosa. Mai però, in
nessuno dei suoi lavori di teatro, Eduardo rappresenta qualcosa
di così raggelante come questa
metamorfosi. «’O viento se cagnaie», «Il vento cambiò», dice la
didascalia, e da quel momento il
«No» del vicolo è definitivo: spalle girate, «Manco nu
“schiatta”, niente». Emanuele e Catarina
restano soli, a seppellire, uno dopo l’altro, i loro piccoli
Magi e quando passano, nessuno si volta,
porte e finestre si chiudono, «pè nun vedé…».
Il sogno natalizio di Padre Cicogna è infranto e non si
ricompone più, come avveniva nella visione
finale che accompagnava il delirio di Luca Cupiello di «un
Presepe grande come il mondo»,
brulicante di uomini veri, «piccoli piccoli, che si dànno un da
fare incredibile per giungere in fretta
alla capanna», dove «un Gesú Bambino grande grande […] palpita e
piange, come piangerebbe un
qualunque neonato piccolo piccolo…».
All’ultima strofa del poemetto l’obiettivo dell’autore si
allarga dal vicolo al mondo.
Cumme fernette?
E che ve saccio addicere…
’A ggente è assaie,
’o munno è chin’ ’e ggente.
Song’a migliar’ ’e fatte ca succedeno.
Chistu fatto è succieso…
E s’è mmiscato
mmiezz’a tant’ati fatte ca succedeno
e va t’ ’o pesca:
’o munno è chino ’e ggente.
Il «no» del vicolo è diventato cosmico. In questo finale non c’è
spiegazione e non c’è speranza. C’è
solo una rassegnata e cinica indifferenza.
A cura di Antonella Ottai e Paola Quarenghi